I dispositivi digitali, se da una parte contribuiscono alla diminuzione dell'uso spropositato della carta, implicano un grande consumo di traffico dati derivati dall’Internet of Thing. Ciò potrebbe rappresentare un fattore di aggravamento dell’inquinamento digitale. Secondo gli ultimi studi effettuati col progetto CO2GLE, è emerso che navigare su internet non è inquinamento-free. Inviare o ricevere email, ad esempio, comporta una dispersione di dati di 30 ExaByte (30 trilioni di Byte) ogni anno. Stessa cosa anche per qualsiasi altra banale funzione che effettuiamo al PC. Questo tipo di "nuovo" inquinamento non apporta solo dispersione di energia per far funzionare i device, ma anche allo smaltimento dei rifiuti elettronici.
Con il progetto CO2GLE la realizzatrice Joana Moll ha elaborato un metodo per "mostrarci" l'inquinamento digitale. Essa utilizza i dati sul traffico Internet, partendo dal presupposto che una ricerca su Google produce circa 4700 grammi di anidride carbonica al secondo. Dunque, ogni minuto la somma delle ricerche produce circa 500 chili di CO2. Google, per ovviare al problema riscaldamento dei device, utilizza nella sua sede in Finlandia l’acqua del mare del Golfo per raffreddare i server.
Joana chiede ai paesi del mondo e alle maggiori istituzioni di studiare nuove normative per incentivare le imprese a dimezzare i consumi e ricercare
tecnologie più efficienti. Chissà se un giorno questo nuovo metodo di "fare internet" potrebbe coincidere con l'istituzione di un moderno impianto industriale mondiale di tipo 4.0...
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